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  • Immagine del redattoreStudio Legale Lima Zega

Gratuito patrocinio vittime di violenza


La Corte Costituzionale con la sentenza che di seguito riportiamo e con cui ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 76 comma 4-ter, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia», ha aperto una nuova strada in ordine alle possibilità di essere difesi ed assistiti nei casi in cui coloro che hanno subito determinati reati violenti non siano in grado di sostenere le necessarie spese legali che sovente, purtroppo, risultano esose. Tuttavia quello che prima facie potrebbe sembrare un qualcosa di vantaggioso, nasconde in realtà, a parere di chi scrive, uno o più aspetti negativi. In effetti, bisogna tener presente che le liste degli avvocati che esercitano con il gratuito patrocinio sono aperte a tutti, senza un controllo sulle specifiche competenze e dunque il rischio è quello di incappare in un legale certamente serio e preparato, ma non in questa specifica materia che, ça va sans dire, necessita una preparazione, un'esperienza ed una sensibilità a dir poco rilevanti.

Dunque, onde evitare di aggiungere al danno anche la beffa di non riuscire ad ottenere il risultato sperato o comunque di ottenerlo in misura non equa, consigliamo di informarsi bene e valutare con attenzione la scelta del legale a cui affidarsi.


Note a sentenza a cura dell'avv. GianCarlo Lima


SENTENZA N. 1 ANNO 2021


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE


composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana

SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA,

Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano

PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

ha pronunciato la seguente


SENTENZA


nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30 maggio 2002, n.

115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia

(Testo A)», promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli sull’istanza proposta da A. C., con ordinanza del 13 dicembre 2019, iscritta la n. 48 del registro

ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 2 dicembre 2020 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;

deliberato nella camera di consiglio del 3 dicembre 2020.

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 13 dicembre 2019, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario

di Tivoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, terzo comma, della Costituzione, questione di

legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo

unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte

in cui, come interpretato dalla Corte di cassazione, determina l’automatica ammissione al patrocinio a

spese dello Stato della persona offesa dai reati, indicati nella norma medesima, di cui agli artt. 572,

583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di

cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice

penale, a prescindere dai limiti di reddito di cui al precedente comma l e senza riservare alcuno spazio di

apprezzamento e discrezionalità valutativa al giudice.

2. Il rimettente premette che, in data 20 maggio 2019, nell’ambito di un giudizio per il reato di cui

all’art. 609-bis cod. pen., veniva depositata istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato da

parte della persona offesa, senza la corredata dichiarazione – prevista dall’art. 79, comma 1, lettera c,

del d.P.R. n. 115 del 2002, a pena di inammissibilità dell’istanza – attestante la sussistenza delle

condizioni di reddito stabilite come requisito per l’ammissione stessa.

Il GIP del Tribunale di Tivoli, con ordinanza interlocutoria notificata al difensore, sospendeva

l’esame della domanda di ammissione al beneficio, invitando ad integrarla con l’indicazione delle

condizioni reddituali e patrimoniali dell’istante. Il difensore depositava una nota in cui osservava che il

reato di cui all’art. 609-bis cod. pen. è «tra quelli per i quali il patrocinio a spese dello Stato è sempre

concesso alla parte offesa prescindendo dalle condizioni reddituali» e che, di conseguenza, «le richieste

del giudice [...] non appaiono motivate rispetto al procedimento in quanto nessuna analisi delle

condizioni reddituali dell'istante deve compiere il giudice, a differenza dei procedimenti ordinari, in

quanto il requisito non è richiesto nella particolare fattispecie della vittima del reato di violenza

sessuale».

3. Tanto premesso in punto di rilevanza – assumendo il giudice rimettente che la procedura

instaurata con il deposito dell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato non possa essere

definita indipendentemente dalla risoluzione della prospettata questione di legittimità costituzionale –, in punto di non manifesta infondatezza, viene affermato che l’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. n. 115 del

2002, per come interpretato dalla Corte di cassazione, contrasta con gli artt. 3 e 24, terzo comma, Cost.

4. La Suprema Corte ha affermato il diritto della persona offesa da uno dei reati indicati nella norma

a fruire del patrocinio a spese dello Stato per il solo fatto di rivestire tale qualifica, a prescindere dalle

proprie condizioni di reddito, che, dunque, non devono neanche essere oggetto di dichiarazione o

attestazione ai sensi del successivo art. 79, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 115 del 2002. Tale lettura

sarebbe imposta dalla ratio della norma, «posto che la finalità della norma in questione appare essere

quella di assicurare alle vittime di quei reati un accesso alla giustizia favorito dalla gratuità

dell’assistenza legale» (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 20 marzo 2017, n. 13497,

successivamente recepita anche dalla Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 23 novembre 2018, n. 52822).


Siffatte ripetute affermazioni del giudice di legittimità, in assenza di decisioni di segno diverso, – a

parere del rimettente – rendono “diritto vivente” la descritta interpretazione dell’art. 76, comma 4-ter, del

d.P.R. n. 115 del 2002, ponendo il giudice dinanzi all’alternativa di uniformarvisi o di rendere un

provvedimento difforme e di segno negativo, verosimilmente destinato all’annullamento o alla riforma.

Ricorda, dunque, il giudice a quo, che, per consolidato orientamento della giurisprudenza

costituzionale, invocare l’intervento del giudice delle leggi è possibile anche allorquando il giudice

remittente ha l’alternativa di «adeguarsi ad un’interpretazione che non condivide o assumere una

pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (sentenza n. 240 del 2016). Ed

infatti, «[p]ur essendo indubbio che nel vigente sistema non sussiste un obbligo per il giudice di merito

di conformarsi agli orientamenti della Corte di cassazione (salvo che nel giudizio di rinvio), è altrettanto

vero che quando questi orientamenti sono stabilmente consolidati nella giurisprudenza – al punto da

acquisire i connotati del “diritto vivente” – è ben possibile che la norma, come interpretata dalla Corte di

legittimità dai giudici di merito, venga sottoposta a scrutinio di costituzionalità, poiché la norma vive

ormai nell’ordinamento in modo cosi radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema

senza l’intervento del legislatore o di questa Corte» (sentenza n. 350 del 1997).

5. Tale interpretazione – che esclude qualsiasi margine di valutazione giudiziale, imponendo

l’ammissione automatica al beneficio e qualificando come superflua l’autocertificazione reddituale pur

tuttora richiesta dal combinato delle disposizioni vigenti – istituisce un automatismo legislativo poiché,

al solo verificarsi del suo presupposto (e cioè assumere l’istante la veste di persona offesa di uno dei reati

indicati dalla norma) determina una conseguenza inderogabile, ossia l’ammissione al beneficio.

Ne deriverebbero pertanto, a parere del GIP del Tribunale di Tivoli, come per ogni forma di

automatismo, ricadute negative sul principio di uguaglianza, poiché verrebbero assimilate tra di loro

situazioni diverse e non equiparabili.

L’ammissione indiscriminata al beneficio de quo di qualsiasi persona offesa non consente alcun

margine di valutazione al giudice in ordine alle condizioni reddituali e patrimoniali (al punto da vietargli

di richiedere la relativa dichiarazione pur prescritta dall’art. 79, comma 1, lettera c, del d.P.R. n. 115 del

2002) e preclude ogni verifica giudiziale circa il possibile ricorrere, o la sicura assenza, di ostacoli e

remore di indole economica che la norma intende rimuovere trasferendo sulla collettività i costi della

difesa tecnica.

Rammenta il rimettente che, nella giurisprudenza costituzionale al riguardo, è frequente il

riferimento al generale obbiettivo di limitare le spese giudiziali, ritenendo cruciale, in tema di patrocinio

a spese dello Stato, l’individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non

abbienti e necessità di contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia.

6. In tale prospettiva di salvaguardia dell’equilibrio dei conti pubblici e di contenimento della spesa

in tema di giustizia, il giudice rimettente evoca anche l’art. 24, terzo comma, Cost., il quale si porrebbe

«non solo come primario strumento di garanzia per assicurare ai non abbienti l’effettivo esercizio del

diritto alla tutela giurisdizionale, ma anche quale presidio diretto ad evitare che gli oneri che ne

conseguono siano aggravati da improprie e ingiustificate estensioni dei benefici a soggetti non

ragionevolmente definibili “non abbienti” e pertanto non bisognosi del sostegno economico della

collettività».

7. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso

dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o

infondata.

7.1. La questione sarebbe inammissibile in quanto il giudice a quo non considererebbe la ratio e

l’ambito applicativo della norma censurata, al fine di valutarne la ragionevolezza; inoltre richiederebbe

“il sindacato nel merito di una scelta legislativa di promozione di valori costituzionalmente tutelati in

mancanza di un’irragionevolezza delle modalità individuate”.

Il primo profilo di inammissibilità investe la mancanza di un’analisi sulle ragioni del trattamento

differenziato introdotto dalla norma ai fini della valutazione dell’asserita irragionevolezza della

previsione. A parere dell’Avvocatura, nell’ordinanza di rimessione non verrebbe in alcun modo valutato

se la tipologia dei reati (sotto il profilo oggettivo) e delle persone istanti (sotto il profilo soggettivo) per i

quali il beneficio è accordato giustifichi un trattamento differenziato. Il giudice a quo, pur invocando

quale parametro di costituzionalità l’art. 3 Cost., non svolgerebbe alcuna valutazione sulla

ragionevolezza della previsione censurata, anche nell’interpretazione fatta propria dalla Corte di

cassazione, così omettendo altresì di dare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma.

Il secondo profilo di inammissibilità deriverebbe dall’insindacabilità delle scelte discrezionali

affidate al legislatore, il quale deve essere libero – salvo il limite dell’irragionevolezza, in questo caso

non superato – di tutelare valori costituzionali, quali la libertà personale, la salute e l’obbligatorietà

dell’azione penale, attraverso norme incentivanti, idonee a far emergere episodi di criminalità odiosi in

danno di vittime fisiologicamente vulnerabili o divenute tali in conseguenza del crimine.

7.2. Secondo l’Avvocatura generale, la questione sarebbe comunque infondata.

7.2.1. Innanzitutto, la prospettata violazione del principio di uguaglianza non sarebbe dal giudice

rimettente rinvenuta nella limitazione del beneficio solo alle persone offese dai reati indicati nella norma,

ma nella mancata considerazione della diversa situazione reddituale sussistente all’interno di tale

categoria.

Posto che la regola è che il beneficio competa ai non abbienti, cioè ai soggetti che percepiscano un

reddito inferiore al limite posto dal comma 1 del censurato art. 76, occorrerebbe valutare se sia possibile

prevedere che vi accedano anche soggetti – senza difficoltà reddituali – che siano persone offese di

determinati reati indicati nella disposizione medesima.

Ed invero, l’eccezione introdotta dal legislatore non solo non sarebbe irragionevole, ma avrebbe una

precisa motivazione, valutabile positivamente, e cioè quella di tutela di soggetti vulnerabili, prima o in

dipendenza del crimine, che potrebbero, per tale stato, avere delle remore a denunciare e a difendersi nei

procedimenti penali nei confronti dei loro aggressori.

Alla tutela di persone deboli si aggiungerebbe, in senso più ampio, una finalità di prevenzione di

crimini odiosi, dato che vengono in rilievo reati abituali o facilmente ripetibili in ragione dell’attitudine

di alcuni soggetti a ricreare in futuro situazioni analoghe.

Quanto, poi, al profilo specificamente legato alla sussistenza di un automatismo nel riconoscimento

del beneficio, che precluderebbe al giudice di valutare la peculiarità della fattispecie concreta,

l’Avvocatura generale esclude la prospettata violazione dell’art. 3 Cost.

E ciò in quanto l’automatismo si regge su una presunzione, che può ritenersi immune da censure di

irragionevolezza se risponde all’id quod plerumque accidit. Pertanto, fermo restando che ogni

automatismo, proprio perché regola meccanica che attinge la propria ratio alla sussistenza di un fatto

presunto sulla base di una massima di esperienza, porta inevitabilmente con sé l’assimilazione di

situazioni che nella realtà possono invece non corrispondere, deve essere considerato irragionevole solo

se smentita a livello empirico, cosa che in questo caso non avverrebbe.

7.2.2. A parere dell’Avvocatura generale sarebbe infondata anche la censura relativa all’art. 24, terzo

comma, Cost.

Rileva quest’ultima che se è ben vero che, in tema di patrocinio a spese dello Stato, è cruciale

l’individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di

contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia, la ricerca di tale punto di equilibrio

competerebbe, comunque, al legislatore e rientrerebbe nella sua discrezionalità, nel delicato

contemperamento con la tutela delle vittime di reati particolarmente odiosi, efferati e frequenti, e con la

tutela dell’effettività della risposta sanzionatoria e di prevenzione di determinati reati.


Considerato in diritto

1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario

di Tivoli solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30 maggio

2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di

giustizia (Testo A)», nella parte in cui, secondo l’interpretazione della Corte di cassazione assurta a

“diritto vivente”, dispone l’ammissione automatica – a prescindere dai limiti di reddito di cui al

precedente comma l – al patrocinio a spese dello Stato delle persone offese dai reati di cui agli artt. 572,

583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di

cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice

penale.

Il rimettente assume il contrasto della disposizione censurata con l’art. 3 della Costituzione in quanto

istituisce un automatismo legislativo di ammissione al beneficio al solo verificarsi del presupposto di

assumere la veste di persona offesa di uno dei reati indicati dalla medesima norma, con esclusione di

qualsiasi spazio di apprezzamento e discrezionalità valutativa del giudice, disciplinando in modo identico

situazioni del tutto eterogenee sotto il profilo economico; nonché con l’art. 24, terzo comma, Cost., in

quanto l’ammissione indiscriminata e automatica al beneficio di qualsiasi persona offesa da uno dei reati

indicati porta a includere anche soggetti di eccezionali capacità economiche, a discapito della necessaria

salvaguardia dell’equilibrio dei conti pubblici e di contenimento della spesa in tema di giustizia.

2. Preliminarmente, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità, formulate dall’Avvocatura

generale dello Stato, per carenza, nell’ordinanza di rimessione, di una adeguata considerazione della ratio

e dell’ambito applicativo della norma censurata, come sarebbe stato invece necessario per valutare la

ragionevolezza della scelta ivi introdotta rispetto alla regola del limite reddituale posta dal comma 1, e

per la richiesta di un «sindacato nel merito di una scelta legislativa di promozione di valori

costituzionalmente tutelati in mancanza di un’irragionevolezza delle modalità individuate».

2.1. Quanto al primo profilo, non sussiste alcun difetto di motivazione, posto che il giudice a quo

argomenta adeguatamente le proprie censure, senza, peraltro, incorrere – come sembra invece adombrare

l’Avvocatura generale – nel mancato esperimento del tentativo di un’interpretazione costituzionalmente

conforme della disposizione censurata.

Infatti, il rimettente ricostruisce adeguatamente la lettura che ne offre la Corte di cassazione e ricorda

che, per consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, invocare l’intervento del giudice

delle leggi è possibile anche allorquando il giudice a quo abbia unicamente l’alternativa «di adeguarsi ad

un’interpretazione che non condivide o assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad

essere riformata» (sentenza n. 240 del 2016).

Effettivamente, questa Corte ha chiarito che, anche in «difetto di un vero e proprio diritto vivente, si

deve tenere conto della circostanza che un’eventuale pronuncia di dissenso» da parte del rimettente lo

espone ad una assai probabile riforma della propria decisione da parte del giudice di ultimo grado: «[i]n

tale ipotesi, quindi, la via della proposizione della questione di legittimità costituzionale costituisce

l’unica idonea ad impedire che continui a trovare applicazione una disposizione ritenuta

costituzionalmente illegittima» in quanto, «se il giudice non si determinasse a sollevare la questione di

legittimità costituzionale, l’alternativa sarebbe dunque solo adeguarsi ad una interpretazione che non si

condivide o assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (sentenza n. 240 del 2016).

Queste considerazioni inducono a escludere anche un’ipotesi di inammissibilità della questione per

la richiesta a questa Corte di un avallo interpretativo. In sostanza, riprendendo le argomentazioni della

già citata sentenza n. 240 del 2016, la soluzione prescelta dal rimettente – cioè di ritenere

l’interpretazione data dalla Corte di cassazione “non altrimenti superabile” (tanto più, allo stato, in

assenza di pronunce contrarie) – non pare implausibile e non lascia spazio in concreto alla

sperimentazione di altre opzioni, dato che in ogni caso tutte verrebbero a confliggere con quella fatta

propria dal giudice di ultimo grado.

2.2. Quanto al secondo profilo di inammissibilità, esso sembra investire la presunta insindacabilità

delle scelte discrezionali affidate al legislatore.

Tale profilo, però, tocca il merito della questione, alla cui trattazione si rimanda.

3. La questione non è fondata.

4. Come da ultimo ribadito da questa Corte, «”la giurisprudenza costituzionale ha in più occasioni

ricondotto l’istituto del patrocinio a spese dello Stato nell’alveo della disciplina processuale (sentenza n.

81 del 2017; ordinanze n. 122 del 2016 e n. 270 del 2012), nella cui conformazione il legislatore gode di

ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte

adottate (ex plurimis, sentenza n. 97 del 2019)”» (sentenza n. 80 del 2020, in linea con la sentenza n. 47

del 2020 e l’ordinanza n. 3 del 2020).

5. La scelta effettuata con la disposizione in esame – che va, appunto, ricondotta nell’alveo della

disciplina processuale – rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole

né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la vulnerabilità delle vittime dei reati indicati

dalla norma medesima oltre che le esigenze di garantire al massimo il venire alla luce di tali reati.

Nel nostro ordinamento giuridico, specialmente negli ultimi anni, è stato dato grande spazio a

provvedimenti e misure tesi a garantire una risposta più efficace verso i reati contro la libertà e

l’autodeterminazione sessuale, considerati di crescente allarme sociale, anche alla luce della maggiore

sensibilità culturale e giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori. Di qui la volontà di

approntare un sistema più efficace per sostenere le vittime, agevolandone il coinvolgimento

nell’emersione e nell’accertamento delle condotte penalmente rilevanti.

Ed infatti, nel preambolo del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di

sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito,

con modificazioni, nella legge n. 38 del 2009, che ha introdotto la disposizione in esame, si richiama «la

straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare una maggiore tutela della sicurezza

della collettività, a fronte dell’allarmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale, attraverso

un sistema di norme finalizzate al contrasto di tali fenomeni e ad una più concreta tutela delle vittime dei

suddetti reati». Non diverse sono le considerazioni sviluppate nel preambolo del decreto-legge 14 agosto

2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere,

nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con

modificazioni, nella legge n. 119 del 2013.

È evidente, dunque, che la ratio della disciplina in esame è rinvenibile in una precisa scelta di

indirizzo politico-criminale che ha l’obiettivo di offrire un concreto sostegno alla persona offesa, la cui

vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare

e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità. Valutazione che appare del tutto

ragionevole e frutto di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità da parte del legislatore.

6. A queste argomentazioni sulla non irragionevolezza della scelta del legislatore di accordare il

beneficio del patrocinio a spese dello Stato sganciandolo dal presupposto della non abbienza, va aggiunta

la considerazione che nel nostro ordinamento sono presenti altre ipotesi in cui il legislatore ha previsto

l’ammissione a tale beneficio a prescindere dalla situazione di non abbienza.

Questa Corte ha affermato in proposito che «tale scelta [di porre a carico dell’erario l’onorario e le

spese spettanti all’avvocato e all’ausiliario del magistrato] rientra nella piena discrezionalità del

legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la

peculiarità del procedimento di espulsione dello straniero e la necessità di non frapporre alcun ostacolo al

perseguimento di questo fine» (ordinanza n. 439 del 2004).

Valutazioni di analogo tenore possono, dunque, svolgersi per la disciplina di cui al censurato comma

4-ter.

7. Quanto, specificamente, al profilo di censura calibrato sull’automatismo del patrocinio a spese

dello Stato quale presunzione assoluta, il giudice a quo segnala che, secondo la giurisprudenza

costituzionale, la presunzione legislativa è immune da censure di legittimità costituzionale e resiste al

vaglio di ragionevolezza solo quando vi sia «solida rispondenza all’id quod plerumque accidit» (così tra

le altre, sia pure relative a ipotesi decisamente distanti da quelle in esame, sentenza n. 191 del 2020); e

che «“le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il

principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza

generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit” (sentenza n. 268 del 2016; in

precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n.

41 del 1999 e n. 139 del 1982). In particolare, l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglie

tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione

posta a base della presunzione stessa.» (sentenza n. 253 del 2019).

E però, il rimettente non coglie nel segno richiamando questa giurisprudenza, posto che, per quanto

sin qui esposto, il beneficio non è legato ad una presunzione di non abbienza delle persone offese dai reati indicati dalla norma censurata e ha tutt’altre giustificazioni.

La verifica della regola dell’id quod plerumque accidit dovrebbe, piuttosto, concernere la

vulnerabilità delle persone offese dai reati presi in considerazione dal censurato comma 4-ter, in ordine

alla cui sussistenza convergono significativi dati di esperienza e innumerevoli studi vittimologici.

8. Per quel che concerne, infine, la prospettata violazione dell’art. 24, terzo comma, Cost., ci si

limita a evidenziare che il parametro evocato impone di assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e

difendersi davanti ad ogni giurisdizione.

Esso non può, dunque, essere distorto nella sua portata, leggendovi una preclusione per il legislatore

di prevedere strumenti per assicurare l’accesso alla giustizia, pur in difetto della situazione di non

abbienza, a presidio di altri valori costituzionalmente rilevanti, come quelli in esame.


PER QUESTI MOTIVI


LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale

dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30

maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di

spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui determina l’automatica ammissione al patrocinio a spese

dello Stato della persona offesa dai reati indicati nella norma medesima, sollevata, in riferimento agli

artt. 3 e 24, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale

ordinario

di Tivoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 dicembre 2020.


F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente e Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 gennaio 2021.

Il Cancelliere

F.to: Filomena PERRONE

Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale

della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della

Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma

dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale,

approvate dalla Corte costituzionale il 16

marzo 1956).


Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.


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